2 febbraio - riflessioni


Tratto da Donato Salfi, Scambio affettivo e incontro sociale in classe. Come scoprire le dinamiche, come governarle, in Intelligenze, emozioni e apprendimenti, a cura di Luigi Tuffanelli, Erickson, Trento, 1999:

Pag. 196 – 197 : “ Ci siamo anche chiesti se l’educazione alla socialità favorisse il comportamento di studio o vi fosse indifferente o addirittura lo danneggiasse. In altri termini: una maggiore abilità sociale aiuta gli studenti a diventare anche più adeguati e funzionali?” La risposta che viene fornita dall’autore è positiva e corredata di dati e si spinge fino a consigliare una programmazione longitudinale su tali aspetti che prosegua fino alle scuole superiori (anche se in realtà, dice, non dovrebbe finire mai).

pagg. 198 – 199: “Si può fare educazione alla socialità comunque e dovunque, ma ritengo che la scuola potrebbe efficacemente svolgere questo compito, sicuramente con un programma, come si desume anche dai dati delle figure 4 e 5 (omissis) , anche se rimane comunque e certamente necessario che ci siano degli insegnanti che siano dei buoni modelli di comportamento e di collaborazione sociale: se tra gli insegnanti di un team, che possono anche avere stili di insegnamento o di comportamento sociale diversi, non c’è unità ma disintegrazione, questi non potranno mai integrare i loro allievi. Come abbiamo visto, se vogliamo un risultato di una certa rilevanza, dobbiamo educare alla socialità sistematicamente e in maniera programmata, mentre interventi occasionali, magari anche efficaci e opportuni, daranno invece risultati minori. Propongo quindi che alcune ore siano dedicate in maniera disciplinare a un programma di educazione alla socialità. La nostra esperienza ci suggerisce tre ore settimanali, con attività funzionali dedicate specificamente a questo”.
Quello che ho notato, rispetto ai giorni iniziali di scuola, è la diminuzione (media) di stili di comunicazione aggressiva (Stefano, Erik, Michele), di stili di comunicazione passiva (Beatrice, Carlotta, Simone, Gianluca) a favore di una incremento di stili di comunicazione assertiva e prosociale (pag. 200 testo citato).

Pag. 201: “Lo stile competitivo in molti contesti è prevalente e, a differenza dell’aggressività, che è molto sanzionata, è tenuto in grande considerazione, anche da quanti paradossalmente sono convinti della bontà della collaboratività e la insegnano, perché è la nostra stessa cultura che assegna alla competitività un significato altamente positivo (“L’Italia deve essere competitiva”, “Le aziende devono imparare a competere”, ecc.). Bisognerebbe poi discutere se è vero che la competitività sia più efficiente della collaboratività, se è vero che le prestazioni del singolo e dei gruppi migliorano quando questi competono. I credo, e lo dico per inciso, che noi siamo caduti nel grave equivoco storico di confondere il competere con l’essere competente. Ciò non è affatto vero […] La prosocialità non è altro che l’assertività, cioè la capacità di perseguire un obiettivo, resistendo alle frustrazioni e mantenendo l’autocontrollo in vista del superamento degli ostacoli, messa in atto non per sé, ma a favore del proprio interlocutore, avendo però deciso liberamente di fare questo” (Aggiungo io: quando questo comportamento mira a massimizzare i profitti del gruppo è anche fortemente razionale).